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Il Sig. Zummo

scultura e racconto breve di umberto dattola

Il terremoto del Belice sottrasse al signor Domenico Zummo la moglie Carmela e una delle sue figlie, Adelina, morte sotto le macerie della sua  casa che fu rasa al suolo schiantandosi su esseri umani, cose e animali in quella tragica notte tra il 14 ed il 15 Gennaio 1968, la notte in cui sparì l’intero paese di Gibellina, il posto nel quale egli era nato 41 anni prima e da cui raramente era uscito.

Una notte terribile, quella: alle tre e otto minuti, le strade iniziarono ad aprirsi creando delle voragini, nelle campagne tra Gibellina e Camporeale spuntarono dei piccoli crateri zampillanti e una poltiglia grigio-giallastra di acqua sulfurea  produsse dappertutto un odore acre e disgustoso, mentre i ponti venivano lesionati irrimediabilmente e le luci si spensero facendo calare il buio ovunque.
Un buio lugubre e raggelante squarciato solo dal rumore dei crolli degli edifici, dai boati provenienti dal sottosuolo, dai pianti dei sepolti vivi. La scossa duro’ 12 interminabili secondi cui seguirono le urla disperate dei sopravvissuti che brancolavano al buio tra la polvere soffocante alzatasi durante i crolli, i passi che inciampavano tra le macerie sparse ovunque.

Con le prime luci dell’alba, la tragedia si rivelò come un incubo nella sua dimensione catastrofica: Gibellina, si era sbriciolata, non c’era più. Con essa interamente distrutti Poggioreale, Salaparuta e Montevago, comuni limitrofi.

Il terremoto del Belice rimase famoso anche per il ritardo dei soccorsi, dal momento che fu inizialmente sottovalutato; addirittura alcuni giornali, il giorno dopo la tragedia, diedero una breve notizia dell’accaduto, segnalando al massimo qualche ferito. Ci fu grande disorganizzazione e approssimazione nei soccorsi e anche i fattori atmosferici contribuirono a rendere più acuto il dramma che fu accompagnato da un freddo pungente causato dalla neve che era caduta nei giorni precedenti e che lasciò il posto a una pioggia sferzante e gelida che trasformo tutto in fango, impantanando inestricabilmente i mezzi di soccorso ed i ripari di fortuna approntati nelle prime ore.

Coloro che erano rimasti in vita, come il Sig. Zummo, non riuscivano a capacitarsi di come si erano potuti salvare e neanche avevano cognizione di come trascorsero quella tragica notte. C’era una confusione totale, la gente si cercava disperata brancolando tra urla e pianti e si riconosceva a fatica, perché’ tutto era trasfigurato dal buio, dal terrore, dalla polvere e dal sangue.

All’alba, il sig. Zummo, che aveva vagato nelle campagne circostanti disperato in cerca di riparo e soccorsi, riuscì a rientrare in paese, ma fu difficile perfino riconoscerla la sua casa ormai ridotta ad un cumulo di macerie, in mezzo ad altri cumuli addossati gli uni agli altri. C’erano pietre di tufo sparse ovunque, blocchi con ferri che spuntavano da ogni dove e ovunque regnava il silenzio cupo di uomini ridotti a fantasmi che vagavano fra le macerie alla ricerca dei propri cari che non rispondevano più.

La casa del Sig. Zummo, era quella dei suoi genitori, aveva costruito con le sue mani la stanza da letto quando si era sposato e in quella stanza aveva ricavato una finestrella che si affacciava sulla vallata e  dalla quale seguiva il susseguirsi dei colori e delle stagioni: i bianchi dell’inverno, il verde chiaro chiazzato di azzurro e rosso della primavera, il verde dapprima scuro e poi bruciato delle caldi estati, il giallo ed il rosso degli autunni. Lì si affacciava tornato a casa dal lavoro, lui che si considerava un privilegiato dal momento che, in terra di emigrazione e disoccupazione endemica, lui un lavoro ce lo aveva. Si affacciava per salutare i passanti, ascoltarne gli umori, raccogliere piccoli pettegolezzi di paese. Da quella finestra apprese l’incidente di suo padre, la nascita del suo primo figlio, le silenziose liti della moglie con la suocera e le cognate.

Poi ad un tratto, quella mattina del 15 Gennaio 1968, il Sig. Zummo riconobbe in una montagna di macerie, da cui fuoriusciva il relitto del tavolo della sua cucina, la sua casa ed iniziò a scavare e piangere chiamando la moglie e la figlia che sapeva mancare all’appello. Le lacrime gli offuscavano la vista, ma continuava a scavare a farsi sanguinare quelle mani che gli sembrava si fossero colpevolmente salvate. Tirò fuori istericamente pietre su pietre e pezzi di legno ed oggetti fino a crollare, svenendo per la fatica, la debolezza, l’impotenza, il dolore….

Rinvenne di li a qualche ora su una brandina, in una tenda dell’ospedale mobile dell’esercito, con accanto a sé un poggiapiedi, regalo di nozze di un parente emigrato anni prima in Liguria, al Nord. Era questo l’’unico oggetto che aveva tirato fuori integro da quello scavare e raspare che l’aveva tramortito.

Gibellina è stata successivamente ricostruita ad una ventina di km dal sito originario. A perenne memoria di quella tragedia, Alberto Burri ha realizzato una toccante opera d’arte, una delle più estese del mondo, realizzando il Grande Cretto, ora noto come il Cretto di Burri. L’opera consta di un’enorme colata di cemento bianco che compatta i dodici ettari di macerie del centro storico di Gibellina. Le macerie, grazie all’intervento dell’esercito, furono raccolte con bulldozer, compattate e tenute insieme da reti metalliche. Sopra questi blocchi omogenei si colò il cemento liquido bianco. All’interno di questa distesa, cretti che ricalcano buona parte dell’impianto urbanistico, con le strade e gli isolati e le antiche vie. Ogni fenditura è larga 2-3 metri, mentre i blocchi sono alti un metro e sessanta circa.

L’efficacia del progetto è l’intensità dell’impatto percettivo: blocchi di cemento con all’interno le macerie del terremoto, blocchi solcati da stradine attraverso le quali, percorrendole pare camminare “in un vasto e spettrale labirinto aperto fra le crettature, che diviene un percorso di smarrimento, di riflessione sulla nozione stessa di perdita”.

Il Sig. Zummo ricostruì la sua vita nella nuova Gibellina, ma comprensibilmente non fu più lo stesso. Era stato un uomo felice ed allegro, ma dopo quella tragedia calò nella sua anima lo spettro della malinconia. Fu un nonno dolce e accogliente, prodigo di storie sulle usanze antiche e sulle persone della sua gioventù. Visse in una nuova casa e venne sempre circondato da tanto affetto. Ma  non si separò mai da Gibellina vecchia e da quella notte.

La sua vita precedente la ritrovava nel “poggiapiedi in legno di fattura genovese”, come lo chiamava lui. Essendo un oggetto abbastanza piccolo, non se ne separava mai, provocando le incomprensioni e le impazienze dei figli. Lo portava con sé anche se doveva affrontare viaggi e con l’avanzare degli anni anche in situazioni meno opportune. Come quando si presentò al matrimonio di Sharon, figlia della cugina Rosaria, col poggiapiedi sotto braccio. Disse per essere più comodo, anche se i piedi non ce li poggiava mai.

Qualche volta si era fatto accompagnare dai nipoti al Cretto, dove si affrettava ad appoggiare il poggiapiedi in corrispondenza del luogo dove era stata la sua casa, fermandosi immobile, quasi senza respirare, a lungo, in silenzio, in contemplazione. Rimaneva lì fermo, con le braccia lungo i fianchi, le spalle strette protese in avanti a causa di una senile curvatura, nel suo vestito grigio scuro, di lanetta, con le maniche della giacca leggermente sfilacciate, una sciarpa al collo che un tempo era stata rossa.

Spesso rimaneva solo di fronte al blocco di cemento di altezza di circa 160 cm. Pensate anche esteticamente come poteva apparire questa distesa di cemento attraversata da ampie fenditure, con al centro un uomo ritto in piedi, con un vestito sbiadito, una brezza che ogni tanto ne muove i lembi, di fronte a se un poggiapiedi di fattura genovese, il silenzio.

Il sig. Zummo morì nel letto di casa sua, circondato da molte persone che si presero cura di lui e che vollero bene alla sua innata dolcezza ed acquisita malinconia. Fu protagonista di EVNI. Così come quasi inspiegabilmente si era trovato accanto nella tenda di ospedale quel poggiapiedi di legno, nel suo ultimo respiro lo vide alzarsi, modificarsi, muoversi….